Si fa presto a dire green: green marketing vs green washing

Sostenibilità e marketing: le aziende stanno cercando di adeguarsi a consumatori più esigenti, ma green marketing è diverso da green washing.

Viviamo un periodo storico in cui l’attenzione per  l’ambiente è una priorità, per molti motivi, e diverse aziende stanno compiendo una conversione verso il green marketing. Con questo termine si indica la commercializzazione di prodotti preparati secondo principi ecologici, sostenibili, utilizzando fonti di energia rinnovabili. Non solo prodotti di agricoltura biologica, ma anche servizi di terziario o progetti complessi che coinvolgono marchi diversi possono a buon diritto fregiarsi del bollino verde.

Se ne parla da anni, per la precisione dagli anni ’70, data in cui si svolse a cura della American  Marketing  Association  (AMA) il  primo workshop  di  “Ecological  Marketing”. Dobbiamo arrivare al 1987 per vedere rafforzati i concetti di sostenibilità ecologica, in seguito all’emissione del Brundtland  Report, un  documento  della World Commission on Environment and  Development. All’inizio degli anni ’90 risalgono due pubblicazioni sul green marketing ancora considerate delle pietre miliari, di Ken Peattie, inglese, del 1992,  e di Jacquelyn Ottman, statunitense, del 1993.

Come si imposta un’operazione di green marketing?

Intanto il prodotto deve essere ecologico e non inquinare l’ambiente. Il prezzo può essere leggermente più alto di quello delle alternative convenzionali, il consumatore accetta volentieri di pagare qualcosa di più se c’è una giustificazione reale.

La distribuzione logistica deve avere il minor impatto possibile, ad esempio utilizzando solo imballaggi in carta o altri materiali riciclabili. Infine la promozione dei prodotti deve sottolinearne tutti gli elementi green, ed essere green lei stessa, rinunciando per esempio a volantini e prodotti usa-e-getta, che finiscono quasi subito nella spazzatura.

In base al vecchio adagio per cui “fatta la legge, trovato l’inganno”, accanto a un green marketing genuinamente interessato alle sorti dell’ambiente nasce quasi subito il green washing, etichetta che indica i tentativi di aziende o brand di mostrarsi attenti e sensibili verso questioni ambientali, nascondendo invece operazioni insostenibili e impatti ambientali negativi.

Il termine green washing nasce negli anni Ottanta, per indicare la richiesta generalizzata da parte degli hotel ai propri clienti di riutilizzare asciugamani e teli-spiaggia anziché chiederne il cambio tutti i giorni, presentata come motivata da ragioni di sostenibilità ambientale quando molto spesso la motivazione principale era di natura economica (tagliare i costi di gestione).

green washing

Cosa può fare il consumatore per individuare e smascherare il green washing?

Impariamo a considerare in modo critico le dichiarazioni delle aziende che si presentano come green, e a diffidare dell’uso compulsivo ed eccessivo di proclami ambientalisti, generici o che possono generare equivoci nel grande pubblico.

Se qualcuno insiste nel decantare il basso impatto ambientale di un prodotto portando la nostra attenzione su pochi parametri, sempre gli stessi, possiamo insospettirci. Spesso, ad esempio, si sostiene che i detergenti liquidi concentrati siano ecosostenibili, perché il contenuto dura di più e permette di ridurre il consumo di flaconi in plastica, ma ci si guarda bene dal ricordare che il risultato è ottenuto grazie ad un alta concentrazione di derivati del benzene, molto inquinanti.

In casi estremi le aziende potrebbero addirittura mentire sull’impatto ambientale della produzione, o falsificare i dati riportati nell’etichetta che dovrebbe riferire sulla filiera: questi, però, sono comportamenti che espongono al rischio di essere smascherati e sanzionati, con un notevole danno soprattutto in termini di reputazione.

Nella maggioranza dei casi il gioco è più fine e può essere difficile individuarlo. Ad esempio, si può suggerire di operare in joint-venture con realtà impegnate nella difesa dell’ambiente, attraverso packaging truffaldini. È il caso dei molti fair trade, che lasciano intendere di operare in partnership con associazioni no profit,  di cui sfruttano il marchio che per molti consumatori attenti alle tematiche ambientali garantisce l’uso di metodi colturali sostenibili e il rispetto delle tradizioni e delle culture locali.

Bisogna anche  guardarsi dai tentativi di sviare l’attenzione del consumatore, dirigendola verso dettagli che potrebbero caratterizzare un prodotto rispettoso dell’ambiente, ma che possono nascondere impatti gravi. Le borse shopper in cotone sembrano una soluzione sostenibile rispetto al sacchetto in plastica usa e getta, ma nascondono controindicazioni pesanti se valutiamo l’impatto delle coltivazioni intensive di cotone sugli ambienti e sulla salute umana.

Insomma, non è affatto semplice orientarsi nel variegato mondo del green.

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Massimo Boyer
Massimo Boyer
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